mediterraneo
- michisabatini
- 24 ott
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Il mare era immenso, sterminato, infinito. Ormai da ore, Tullu continuava a misurare con l’intercapedine tra le dita la distanza tra un’onda e l’altra. Per lui non contava nient’altro: osservare il mare, soppesare l’orizzonte, respirare la spuma delle onde e il sale dell’aria. Era l’unica attività in grado di distrarlo. Distrarlo dalla noia, dalla stanchezza, dalla paura.
Prima di allora, non aveva mai visto il mare se non nella chiazza azzurrina della mappa sgualcita appesa nella sua vecchia scuola di Addis Abeba, frequentata solo durante i primi dieci anni di vita. Ora che ne aveva dodici, poteva finalmente di averlo osservato con i propri occhi, ma non era affatto come lo aveva sempre immaginato. Non era placido e dolce, come la madre gli aveva raccontato, ma tenebroso e terrificante.
La barca era una massa compatta di corpi e fiati: uomini, donne, bambini, neonati. Un mare umano, stipato su una carcassa di legno che oscillava sopra l’orizzonte incerto. Non vi era spazio per sdraiarsi, per levarsi in piedi, nemmeno per sbadigliare o poggiare la testa sul proprio petto e dormire.
La gola era arsa come il deserto sudanese che aveva attraversato, insieme alla madre, al fratellino Faud e al fratello maggiore Djawami, per nove giorni di fila, tre dei quali trascorsi rannicchiati all’interno di un pickup che puzzava di sudore, urina e tormento. Nei pressi di una stazione per metà sommersa nella sabbia nubiana, la polizia aveva fermato la vettura e costretto i venti passeggeri a scendere nel bel mezzo del deserto, a suon di manganelli e AK-47.
Mentre lui, la madre e Faud avevano atteso per due giorni in cella, senza poter mangiare o riposare per via delle grida dei prigionieri, Tullu aveva udito le urla di Djawami per via delle torture da parte della polizia, nella sala degli interrogatori. La madre lo aveva stretto forte al seno, nel tentativo di attutire lo straziante fragore della sofferenza del fratello, ma le sue lacrime gli avevano bagnato il capo e il singhiozzare della donna indebolito la presa. La notte del secondo giorno, dopo che la madre aveva promesso, in ginocchio e tra le grida, di pagare un copioso riscatto, Djawami era stato rilasciato dalla prigionia. I poliziotti si erano guadagnati un pesante orologio appartenuto al defunto padre di Tullu e due orecchini brillanti della madre, e Djawami aveva perso anulare e mignolo sinistro, tutte le unghie di piedi e mani e il desiderio di parlare o vivere.
La famiglia aveva ripreso il viaggio nel silenzio, tentando di ignorare l’accaduto. Tullu, che aveva sempre ammirato la scioltezza della lingua di Djawami, la vivacità dei suoi occhi e la forza dei suoi polpacci, aveva capito da solo che non avrebbe mai più rivisto il fratello sorridere. Non aveva posto alcuna domanda, per i restanti due giorni di cammino nel deserto. Aveva stretto i denti e camminato, lentamente, con il caldo, la sete e la fame. Pian piano, si erano uniti altri viaggiatori al loro cammino, dalle età e dalle origini più disparate. Wolof, swahili, creolo, francese, portoghese si mescolavano in un turbinio di voci stanche, assetate e disperate, alimentando il vociare inascoltato del deserto.
Durante la notte, la temperatura calava drasticamente, e Tullu passava dall’asciugarsi la fronte imperlata di sudore al battere i denti incessantemente. Al mattino, non era raro che i più anziani e deboli non si risvegliassero, venendo lasciati alle spalle della carovana come briciole di pane sparse sulla sabbia. Non vi erano né il tempo né le energie di piangere i morti.
La terza sera, poco prima del tramonto, Djawami era svenuto senza proferir parola, e la sua famiglia si era fermata al suo fianco per la notte. La mattina seguente, Tullu aveva aperto gli occhi nel silenzio irreale. Accanto a lui, il corpo immobile del fratello maggiore, le labbra viola e le mani rigide come pietra. La sabbia gli copriva le ciglia come un sudario. La madre era inginocchiata sopra di lui, tremante, con il piccolo Faud stretto al suo petto. Nessuno aveva pianto, poiché non vi erano rimaste più lacrime.
Dopo aver sussurrato una preghiera strozzata in amharico insieme alla madre, Tullu aveva scavato una piccola fossa con le mani nude, tremando di freddo e dolore, finché il corpo del fratello era scomparso sotto il deserto. Solo allora si erano rimessi in marcia, spinti dalla necessità, dal miraggio di una salvezza che sembrava non volerli mai raggiungere.
Ora, su quella barca cigolante in mezzo al mare, Tullu riviveva ogni passo, ogni granello di sabbia, ogni grido di sofferenza. Ma il mare non aveva pietà: si dimenava come un pesce ferito, ululando al vento e percuotendo la barca da una parte all’altra, mentre le persone intorno ansimavano, tossivano, pregavano, vomitavano, stringevano i propri bambini come reliquie di una vita che stava svanendo tra le loro mani. Tullu osservò uno ad uno i volti dei suoi compagni di viaggio, gli sguardi della disperazione, gli occhi di chi temeva di sprofondare tra le acque del Mediterraneo, senza mai riuscire a toccare con mano la terra della salvezza.
Vi era chi parlava della pandemia, la malattia invisibile che aveva fermato il mondo al di là del mare. Tullu aveva sentito quella parola in più lingue durante il viaggio, ma la madre lo aveva rassicurato con scetticismo rispetto a tale misterioso sortilegio che trasformava gli uomini in animali. E poi, anche se fosse stato vero, avevano dovuto affrontare difficoltà ben peggiori. Per lui e gli altri compagni di viaggio, il virus era solo un’eco lontana, a cui avrebbero pensato una volta sopravvissuti alla traversata.
Giunti a Tripoli, dopo l’infinita odissea nel deserto, la vita non si era rivelata affatto facile. C’erano voluti due mesi, durante i quali Tullu e ciò che restava della sua famiglia avevano vissuto stipati come sardine in un appartamento sudicio e fatiscente, insieme ad altre quattro famiglie, prima di trovare un’imbarcazione per attraversare il mare. Tullu non seppe mai gli orrori che la madre aveva dovuto sopportare per ottenere il passaggio per loro tre, e si rifiutò persino di risolvere il mistero delle cicatrici sulla schiena, sulle braccia e sul volto della donna. Anche lei, come Djawami, aveva perso per sempre il sorriso.
Il bagliore pallido della luna si rifletteva sulla burrasca, ora che un altro sole era tramontato dietro l’orizzonte, e Tullu si era stancato persino di misurare il mare. Da giorni pativa, oltre alla fame e alla sete, una stanchezza mai provata prima, oltre alla totale assenza dei sensi del gusto e dell’olfatto. Certo, aveva pensato fosse stata la prima fortuna di quel viaggio, non poter sentire il nauseabondo olezzo della barca. Poi aveva iniziato a provare dolore alle ossa, la testa si era fatta pesante e incandescente, e infine la tosse, i tremori e i capogiri.
Quella notte, in balia delle fragorose onde illuminate dai raggi lunari, Tullu non riusciva più a sentire il proprio corpo. Nelle allucinazioni della febbre, aveva rivisto il sorriso del fratello, le sue gambe snelle correre nel fango e la sua voce placida che sembrava richiamarlo a sé.
«Sto arrivando da te, wenidimi» sussurrò, poco prima di chiudere gli occhi.
D’improvviso, fu costretto a riaprirli: un tremore percorse la barca dall’estremità della prua fino alla poppa, piegando la chiglia come un ramo secco. La barca iniziò ad allagarsi, e nel buio si fecero sempre più acute le grida dei passeggeri. La madre gli strinse la mano, alzandosi di scatto, mentre il piccolo Faud piangeva con voce flebile, quasi soffocata. La disperazione prese il sopravvento dell'imbarcazione: non vi era più alcuna speranza di salvezza.
Tullu si era arreso all'idea che era tutto finito: nessuno di loro aveva mai imparato a nuotare.
Poi, la placida luce della luna illuminò una scena a dir poco surreale. Tullu pensò ancora una volta al fratello maggiore, e a quanto avrebbe voluto che fosse lì al suo fianco, a osservare la magia che sembrava accadere sotto i suoi occhi. Il mare, fino a un momento prima nero e furioso, si fece di colpo chiaro e lucente. Una luce perlata cominciò a risalire dal fondo, e in pochi istanti la barca fu circondata da una miriade di bagliori mobili, vivi, pulsanti.
Pesci. A migliaia, a milioni.
Danzavano in cerchi ampi e sinuosi, dando vita a un vortice di luci e colori. Erano di ogni forma e grandezza, alcuni minuscoli, come le stelle lontane nel cielo, altri giganteschi, come i mostri delle antiche leggende. Squame iridescenti si riflettevano l’una sull’altra, creando un mosaico liquido di smeraldo, zaffiro e oro. Tra le onde turbinose sguazzavano anguille dal corpo filiforme, razze simili a stendardi di seta, meduse iridescenti, pesci volanti che sfioravano l’aria per poi ricadere in una leggiadra eco di luce.
L’agitazione si impadronì completamente dell’imbarcazione: a che razza di sortilegio stavano assistendo? La madre di Tullu gridò, una mano stretta su quella del figlio, un'altra sulla testa del più piccolo, ma la voce le si spezzò in gola. Il suo corpo cominciò a vibrare, e a perdere il controllo. La presa sui suoi figli si allentò, e in un attimo il piccolo Faud le scivolò via dal petto, precipitando tra le onde. D’istinto, la donna si gettò al suo seguito, scomparendo tra i flutti.
Tullu rimase immobilizzato, le lacrime congelate sugli occhi, la voce rotta. Poi, una gigantesca ombra si allungò sopra di lui. Alzò lo sguardo: una maestosa balenottera azzurra, dal ventre gonfio e chiaro, si levò sopra la sua testa, disegnando un arco perfetto nella notte, poco prima di rigettarsi in acqua. Un minuscolo pesciolino argenteo emerse per un attimo, nuotando felicemente attorno al cetaceo.
«Inati» sussurrò Tullu, ancora immobile e infradiciato dal tuffo della balena. Guardò le proprie mani dissolversi in pinne delicate e colorate. Le vene si illuminarono, correndo sotto una pelle di squame cangianti, ornate di rossi, blu e gialli intensi. Si sentì leggero, fluido, come se ogni peso della terra si fosse finalmente staccato dal suo corpo. Provò a parlare, ma non riuscì ad emettere alcun suono, e inaspettatamente il fatto non lo infastidì. Non sembrava esserci più dolore, né febbre, né paura. Solo il mare, che gli parve richiamarlo a sé con voce accogliente.
Con un balzo, raggiunse la madre e il fratello nella loro nuova forma, e una coda e una pinna posteriore si allungarono sul suo dorso, garantendogli stabilità. Non poteva crederci: stava finalmente nuotando. Si guardò riflesso nella superficie, e per un istante non riconobbe sé stesso. Poi capì: era un pesce mandarino, uno dei più rari e splendidi dell’oceano. Le sue pinne si muovevano leggiadre come ali, e il suo corpo brillava di un bagliore che sembrava provenire dall'interno.
Tutto intorno, gli altri passeggeri mutavano uno ad uno. Ogni corpo, prima rigido e stanco, si tramutava in un essere marino: delfini, pesci spada, minuscole sardine guizzavano, finalmente libere, tra le onde del Mediterraneo. La barca, ormai vuota e piegata a metà, colava a picco lentamente.
Tullu si immerse nelle profondità, osservandola sprofondare sul fondale, unendosi agli altri innumerevoli relitti, gusci vuoti delle speranze che migliaia di altri migranti prima di lui avevano riposto in quel tragitto disumano.
Il mare si calmò. La luna, alta nel cielo, illuminava quella meravigliosa e variegata moltitudine che nuotava in armonia verso la libertà. Non vi erano più deserti, né prigioni, né fame, né sofferenza, né terre ambite da raggiungere. Solo il respiro dell’acqua, e il canto sommesso della balenottera che guidava i suoi figli verso l’orizzonte.




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