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l'orso

  • michisabatini
  • 15 apr
  • Tempo di lettura: 10 min

Aggiornamento: 14 mag




Nell’ottobre del 2020 tre notizie monopolizzavano i giornali e infiammavano le bacheche dei social: l’immancabile bollettino quotidiano dei contagi del virus, che dopo le riaperture estive mostrava numeri sempre più allarmanti, la curiosa vicenda di un orso bruno in libertà nei boschi del Trentino, attorno al quale si era acceso un feroce dibattito tra chi ne invocava l’abbattimento e chi, al contrario, ne rivendicava la libertà come simbolo di un ritorno alla natura, e infine la tragica morte di Alice, ventidue anni, violentata e successivamente strangolata dal fidanzato.

Irene, Marta e Laura sedevano al tavolino più soleggiato del bar di fronte al Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università di Trento. Riempivano le due ore di pausa tra la lezione di filologia romanza e quella di letteratura latina medievale con un caffè macchiato. Marta e Laura, con le mascherine abbassate sotto il mento, scrollavano Duck.com senza sosta, partecipando attivamente ad ambedue i dibattiti sulle notizie, attraverso commenti e condivisioni.

Irene detestava leggere le notizie dal telefono, e aveva spalancato le pagine del giornale comperato quella stessa mattina di fronte alle amiche. Molti la definivano un’anima antica, lei rispondeva semplicemente che il cellulare le stancava gli occhi, e inoltre adorava il profumo della carta.

«Sinceramente preferirei incontrare l’orso per strada piuttosto che un uomo del genere» commentò Marta, stropicciando la cartina del tabacco nervosamente.

«Ma dai, sei seria?» rispose Laura. «È ovvio che sceglieresti l’uomo: l’orso ti sbrana, fine».

«E se l’uomo ti sbrana più lentamente?» intervenne con voce tenue Irene, abbassando lo sguardo sulla tazzina vuota, come se potesse leggere la risposta nei grani di zucchero sul fondo.

Per un attimo tacquero tutte, il tintinnio delle tazzine e dei cucchiaini del bar e il chiacchiericcio degli studenti sullo sfondo.

«Alice lo conosceva da un anno» continuò Marta, «era uno di quelli che ti tengono aperta la porta, o ti aspettano sotto casa con un cornetto. I mostri non sono sempre mostri, all’inizio».

«Già, ma come si fa a riconoscere i mostri, allora?» domandò Laura.

«Non lo so, forse dovremmo riconoscere i ruggiti, anche quando all’inizio sembrano sussurri» rispose Irene.

Non lo disse alle altre, ma quella storia l’aveva turbata ancor più di quanto volesse ammettere, e per una ragione precisa. Da qualche settimana, Irene si stava innamorando, e in quei giorni una frase letta e riletta sui social le ronzava insistentemente in testa, come un avvertimento sussurrato a mezza voce: “non tutti gli uomini, ma sempre un uomo”. Eppure, Tommaso era diverso dagli altri: dolce, educato, viso pulito e occhi azzurri come il ghiaccio.

Si erano conosciuti un giovedì pomeriggio in biblioteca. Lui le aveva domandato se il posto accanto fosse libero, con una pila di libri in mano, e poi, con voce calma e ruvida le aveva chiesto incuriosito il titolo del libro che stava leggendo. Studente all’ultimo anno di giurisprudenza, alle prese con il gravoso esame di diritto penale, l’aveva sbeffeggiata per la facilità della materia che stava studiando, letteratura latina, con quel sorrisetto gentile ma beffardo. Lei aveva finto di offendersi, e lui si era immediatamente e sinceramente scusato, chiedendole di parlargli di quel misterioso Ovidio di cui aveva intravisto il nome tra le pagine del libro. La conversazione era proceduta agevolmente, con la leggerezza di un ruscello di montagna, fino a quando la bibliotecaria non li aveva rimproverati per il tono di voce. Trattenendo entrambi un risolino, erano usciti dall’aula studio e avevano ripreso a chiacchierare di fronte a un caffè.

Da allora, ogni giovedì pomeriggio diventò un piccolo rituale, una scusa per trovarsi lì, raccontarsi della propria settimana, studiare insieme tra le pagine sottolineate e gli sguardi che si cercavano sempre un po’ più del solito. Tommaso la faceva sentire ascoltata, sempre disponibile, le offriva il caffè e una sigaretta durante le pause, ricordava le date dei suoi esami, le scriveva il buongiorno ogni mattina. Quando finalmente le chiese di uscire, Irene non pensò neppure per un attimo di declinare l’offerta. Il primo bacio fu in riva all’Adige, vicino al ponte San Lorenzo, tra le luci tremolanti dei lampioni e lo scroscio dell’acqua gelida. Tommaso le tenne la mano per tutto il tragitto di ritorno, come se non volesse lasciarla più.

Durante le settimane successive sembrava tutto perfetto: le attenzioni, le frasi dolci, le risate. Persino Marta e Laura si mostrarono contente per lei, nonostante la solita punta di ironia che si riserva alle infatuazioni appena sbocciate. Irene aveva sempre avuto difficoltà a lasciarsi andare, nelle amicizie quanto nelle relazioni. Non aveva mai ragionato sulle motivazioni, ma vi erano stati alcuni momenti nella vita che l’avevano portata a diffidare degli uomini: la separazione dei suoi genitori in tenera età, a causa del tradimento del padre, quella mano sconosciuta scivolata sotto la sua gonna all’uscita di scuola, l’ultimo giorno della terza superiore, le eccessive attenzioni non volute di un compagno di classe che l’avevano costretta a trasferirsi in un’altra scuola, nonostante adorasse i professori e il resto dei compagni. Con Tommaso era diverso, lui le piaceva davvero. Era questo l’unico pensiero che la rassicurava, ogni volta che quella frase tornava a risuonarle in testa.

“Non tutti gli uomini, ma sempre un uomo”. E lei sperava, con tutta sé stessa, che quel sempre non fosse questa volta.

Dopo la conversazione al bar con le amiche, Irene si immerse completamente nell’onda di collera e solidarietà che si diffuse in città, partecipando a tutti i cortei e alle manifestazioni organizzate a Trento. Sentiva la viscerale urgenza di far sentire la propria voce e rendere visibile il proprio dolore, la propria paura, ma anche, e soprattutto, la propria forza. Lo faceva per Alice, certo, per quella studentessa che non aveva mai visto quando era in vita, ma di cui aveva imparato a conoscere il volto e le emozioni dai post condivisi, dai cartelloni e dalle candele accese nelle piazze. Ma lo faceva anche per Rebecca e Serena, uccise il mese precedente, per Giulia e per tutte le altre, quelle senza nome, dimenticate troppo in fretta, per quelle che non erano state ascoltate quando avevano tentato di parlare, e per quelle ancora vive, ma dalla voce spezzata dalla sofferenza.

Sostenuta e accompagnata dalle migliore amiche e da tante altre colleghe universitarie, coetanee, donne più grandi e più giovani ancora, Irene si sentì parte di un grande movimento sincero, alleggerita, almeno in quei momenti di solidarietà. Tommaso aveva partecipato con lei alla prima manifestazione, non certo con il medesimo coinvolgimento, ma Irene aveva apprezzato il gesto. Già dalla seconda protesta, tuttavia, aveva trovato delle scuse per mancare, e lei non se l’era sentita di insistere.

Oramai erano fidanzati ufficialmente, e avevano imparato a conoscersi sempre meglio: a lui piaceva allenarsi in palestra, giocare ai videogiochi con gli amici fino a tarda notte, le labbra carnose della fidanzata. Lei amava leggere, le passeggiate in montagna la domenica, il caffè e il brunch con le amiche, gli occhi azzurri del fidanzato. A lui a volte infastidiva l’eccessivo trasporto con cui lei parlava di certe tematiche sociali, a lei non piacevano le battute sessiste degli amici a cui lui rideva evitando il suo sguardo, per timore di essere rimproverato. Lui era figlio unico e non parlava tanto con il padre, avvocato noto in tutta la regione, lei non vedeva il padre da anni, ma la madre era la sua migliore amica. A lui non piaceva essere disturbato dalle chiamate di Irene quando era con gli amici o si allenava, a lei non piaceva l’eccessivamente energica stretta al polso quando lui voleva che restasse a casa sua, nonostante l’indomani avesse lezione presto.

Inoltre, vi era la questione del sesso. Lui aveva alle spalle una serie di relazioni infelici e tossiche, ma delle quali, come teneva a ribadire, ricordava la sfrenata passionalità. Lei non aveva ancora mai trovato quello giusto, e nonostante fosse convinta che Tommaso potesse ricoprire tale ruolo, sentiva che ancora non era giunto il momento di concedersi. Lui aveva insistito più e più volte sull’argomento, ma lei glielo aveva ogni volta negato, scatenando in lui reazioni sempre più isteriche. Irene gli aveva spiegato la situazione e che aveva bisogno del proprio tempo, e lui aveva infine acconsentito ad attendere ulteriormente, con un cenno del capo un po’ spazientito.

Nel frattempo, la situazione pandemica non sembrava affatto migliorare: si mormorava di un possibile vaccino in arrivo in primavera, ma intanto i contagi salivano senza sosta, insieme al numero di persone mutate in corpi di galline, stambecchi o iguane. Per arginare il contagio e l’isteria crescente, il governo aveva suddiviso il Paese in zone colorate: gialla per le aree meno colpite, arancione per le situazioni intermedie, rossa per quelle più gravi. Trento era diventata zona arancione, con restrizioni moderate ma abbastanza rigorose: bar e ristoranti chiusi, didattica a distanza, nonostante i primi, fallimentari, tentativi di riaprire scuole e università, spostamenti tra comuni vietati. Era tuttavia concessa un’uscita settimanale per una rinfrescante passeggiata in montagna o spostamenti individuali per motivi importanti entro i confini provinciali.

L’indomani soleggiato di una burrascosa tempesta di neve in cima alle montagne, Irene e Tommaso decisero di salire sul Monte Bondone, per godersi finalmente l’aria fresca e la vista sulla città. Era la loro prima vera uscita dopo settimane di brevi incontri, sempre più rari, tra mascherine, autocertificazioni e il minimo contatto fisico. Irene aveva indossato gli scarponi da escursione a cui era affezionata, preparato il tè caldo in un thermos, messo nello zaino qualche biscotto e un libro di poesie da leggere insieme in cima. Tommaso aveva guidato fino all’inizio del sentiero che li avrebbe portati, in poco più di due ore, al punto panoramico sulla città. A Irene la montagna era mancata profondamente in quei mesi, e nonostante il pungente freddo invernale aveva atteso tutta la settimana quella piccola escursione.

La salita fu tranquilla, intervallata da chiacchiere leggere e dai silenzi per riprendere fiato, di tanto in tanto. A lei parve, tuttavia, che Tommaso avesse un’espressione insolita sul volto, ombrosa e misteriosa. Giunti a destinazione, bevvero il tè e si fermarono a guardare la meravigliosa distesa innevata su Trento, e ad ascoltare il silenzio della montagna. Il sole iniziava il suo capolino dietro i monti, illuminando le candide cime di color pesco.

«Come vorrei trasferirmi in un rifugio qua sopra a leggere e passeggiare» disse Irene, poggiando la testa sulla spalla del fidanzato.

«E come guadagni da vivere? Vendendo capre?» rispose lui, con voce seccata.

«Perché no?» rise lei. Ma Tommaso non rise.

«Tutto bene?» gli domandò.

Lui annuì con scarso interesse.

«Scusami, sono un po’ stanco. Andiamo, che si sta facendo tardi?».

La discesa fu più rapida della salita, e in meno di due ore i due si ritrovarono in auto.

Prima di girare la chiave della macchina, Tommaso si avvicinò a lei  e le diede un bacio più trasportato del solito. Poi le posò la mano sulla coscia, dapprima accarezzandola dolcemente, poi stringendola.

«Piano, Tommà» gli sussurrò lei, con fare scherzoso.

«Dai, Ire» rispose lui. Non sembrava affatto scherzare.

Una mano salì all’altezza del seno, l’altra sul fianco, poi un poco più in basso. Irene allontanò il viso, e tentò di parlare, ma un gridolino le si spezzò in gola. Posò lo sguardo su di lui, ma in quel momento il Tommaso che conosceva non era più presente.

Gli occhi di ghiaccio che tanto adorava erano ora glaciali, lo sguardo perso nel vuoto, una forza che Irene non gli aveva mai visto adoperare. Cosa stava facendo? Perché lo stava facendo? Lei non gli apparteneva, non gli era mai appartenuta. Come poteva farle questo?

Dalla sua bocca non uscivano più gemiti, ma ruggiti. Le mani parvero ai suoi occhi allargarsi in zampe ingombranti, le unghie in artigli, i denti, prima smaglianti, sembravano ora aguzzi, la pelle glabra e candida di lui sembrò ricoprirsi di un pelo bruno, ruvido. L’uomo era ora bestia.

E Irene non era più una donna, non era più neppure una persona. Quando lui le abbassò i pantaloni con violenza, il corpo di lei si paralizzò. Riuscì a muovere soltanto gli occhi, posando lo sguardo sulla punta del monte, dove poche ore prima avevano condiviso quel tenero momento, e si immaginò di aleggiarvi sopra. L’anima non era più nel suo corpo, né il corpo era più il suo. Si sentì trasportare come un oggetto immobile dal vento gelido. Durante quegli attimi infiniti, tutto era ovattato: il silenzio, la pace della montagna, il vento raggelante.

Quando finì, lui si rivestì senza dire una parola. Per tutto il tragitto rimasero in silenzio, gli occhi di Irene fissi fuori dal finestrino, le mani sul grembo, le lacrime congelate sulle ciglia. Una volta giunta a casa, non disse niente a nessuno. Non alla madre, che la attendeva con il sorriso, né alle amiche che le scrissero nei giorni seguenti preoccupate. Voleva solo rimanere in silenzio, fingere che non fosse mai successo niente. Era stato soltanto un brutto scherzo, un piccolo capitombolo alle falde della vita.

Nel giro di pochi giorni si lavò una decina di volte, ma non riusciva a grattare via lo sporco che si sentiva addosso. Le sue mani, i suoi artigli, il suo fiato pesante, li sentiva ancora su tutto il corpo. Insieme a un profondo e tagliente freddo sulla pelle.

Durante le settimane successive il sorriso di Irene sembrava essersi spento, non riusciva a mangiare, a ridere, a parlare. Continuava a domandarsi perché fosse accaduto proprio a lei, proprio da parte dell’unica persona di cui si era mai fidata. Si odiava per essersi concessa, sentiva un profondo senso di colpa, come se fosse stata lei l’artefice del suo stesso delitto. A quanto pareva, la sua anima continuava ad aleggiare sopra i monti innevati, perché Irene non la sentiva più dentro il proprio corpo. Era svuotata completamente, nel silenzio, nel gelo e nel buio dei propri pensieri.

Quando finalmente trovò il coraggio di raccontarlo alla madre, a Laura e a Marta, il fiume di lacrime che aveva trattenuto per mesi straripò fino a prosciugarla. Aveva perso dieci chili, e dell’orso che l’aveva ferita non aveva più avuto notizie.

 

~

 

Erano passati svariati inverni dall’attacco dell’orso, e persino la pandemia sembrava ormai un ricordo lontano. Irene viveva e lavorava come barista in un rifugio in una di quelle montagne che sovrastavano la sua vecchia città, frequentato principalmente da pochi escursionisti e sciatori di passaggio. Aveva lasciato alle spalle la sua vecchia vita, l’università, le amiche, persino sua madre, che sentiva comunque di tanto in tanto al telefono. Non era stata una fuga precipitosa, piuttosto un lento dissolversi, come un filo di fumo che si disperde nell’aria.

Una sera entrarono nel rifugio due uomini infreddoliti, scrollandosi la neve di dosso e sedendosi accanto al caminetto acceso. Irene preparò il tè caldo e glielo portò senza proferire parola, ma la loro conversazione iniziò a richiamare la sua attenzione.

«Abbiamo visto delle impronte sulla neve, enormi» disse il più anziano dei due, «deve essere un orso per forza».

«Un’altra volta? Ti ho già detto che orsi non se ne vedono da queste parti, al massimo sarà risalito verso il bosco».

«E se fosse rimasto qui? Tu che ci vivi, dicci, è pericoloso?» domandò a Irene, in piedi accanto al camino.

«Gli orsi non sembrano mai pericolosi. Fino a quando non lo diventano».

Lo sguardo fisso sul crepitio del fuoco. Le tornò in mente quella vecchia conversazione con le amiche che non sentiva da tempo, avvenuta al bar della sua università, quando era ancora una studentessa spensierata, prima di inciampare nel dolore.

I due si guardarono perplessi, e portarono le tazze alle labbra, incerti su come rispondere. Irene tornò al bancone e riprese a pulire con gesti lenti, controllati. Scrutò al di là della finestra: la foresta era immobile, ricoperta dal manto innevato. Aguzzò la vista e intravide delle grosse orme sulla neve, poi scosse la testa: la bestia che le aveva strappato via l’anima non era più comparsa nei suoi pensieri. Le ombre del passato non potevano più toccarla.

Non aveva dimenticato l’orso, ma ora sentiva di non dover più scappare.

 

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